Vita da “il collegio”, tra reality e ricordi.

Avevo programmato di andare a dormire ma, passando in cucina per bere il solito bicchiere di acqua, ho trovato la tv accesa sul reality “il collegio”. Dopo qualche secondo di indifferenza ostentata per non cadere nella trappola della tv, sono rimasto colpito dalla potenza di questo esperimento: forse perchè anche io qualche anno dopo la data di ambientazione del reality 1961, ho frequentato il collegio sperimenhtando gli stessi metodi, le stesse dinamiche.
Per chi non lo ha visto, si tratta di un gruppetto di ragazzi dall’età variabile tra i 14 e i 17 anni, teletrasportato in un collegio degli anni 60, con tutto quello che ne consegue in termini di metodi autoritari, abitudini, dinamiche eccetera. Dei ragazzi di oggi, alle prese con gli esami di terza media di allora da superare. Dal contrasto tra quello che sono i ragazzi di oggi e le loro abitudini e il dover essere come ci si aspettava da un adolescente nei primi anni 60 il cortocircuito si è rivelato molto interessante e anche divertente, sicuramente una esperienza che doveva essere vista da genitori e ragazzi insieme. Per i ragazzi, selezionati in modo da avere uno spaccato geografico e sociale composito tra quanti si erano proposti (con l’avvallo e talora la spinta di genitori esasperati), è stato un salto indietro nel tempo che ha comportato cambiamenti anche traumatici: non solo l’obbligo ad abbandonare gli smartphone (nella prima puntata si vede il loro tentativo per aggirare l’imposizione), ma quello di adeguare ai tempi abbigliamento (tutti in divisa, e persino con la biancheria fornita dalla produzione e quindi «vintage»), pettinature (con conseguente passaggio dal barbiere), di rinunciare a piercing e trucco, cambiare regole di comportamento, studio, alimentazione, tempo libero. «Da una libertà quasi totale si sono trovati in un mondo fatto di regole.
Come hanno reagito i ragazzi? Pur con i dovuti distinguo («C’è stato di tutto: rivolte, un’espulsione, uno sciopero delle lezioni»), alla fine i ragazzi si sono adeguati e abituati. «La cosa di cui più hanno sofferto forse maggiormente è stata la lontananza dalle famiglie: alcuni non si erano mai separati dai genitori. E infatti due non ce l’hanno fatta e si sono “ritirati”; ma anche l’assenza degli smartphone: proviamoci pure noi! Per il resto, sorpresa e curiosità l’hanno avuta vinta sulle difficoltà. Oltre alla «voglia di farcela». Alla fine non solo hanno scoperto un modo diverso di rapportarsi tra loro, ma anche la forza della solidarietà e della comunità come non le avevano mai provate. «Una delle più “scapestrate” tra le ragazze ha definito l’esperimento come “l’esperienza più bella della mia vita”. E il giorno dell’addio è stato accompagnato da lacrime e abbracci. «Certo, effetto della condizione di chi vive a stretto contatto e isolato dall’esterno per un periodo abbastanza lungo, ma anche del fatto che i ragazzi a quell’età vivono le proprie emozioni in modo più intenso e senza freni né filtri». Per quanto riguarda la presenza delle telecamere, «sono state ben presto dimenticate, quasi che una generazione abituata a riprendersi e farsi riprendere non vi prestasse più alcuna importanza. Per quanto mi riguarda è stata una vera emozione: non so come reagirei oggi, forse mi ribellerei più ancora dei ragazzi ma, so anche che quella vita mi ha temprato: la solidarietà nella precarietà ne esce notevolmente rafforzata, e Dio sa quanta solidarietà manca oggi e quanta ce ne vorrebbe.

Un giorno dissi:…

Condivido praticamente tutto di questo articolo. Io al blog ci sono arrivato da 3 mesi perchè ero e sono su facebook e youtube. Credevo fosse un retaggio del passato e invece mi si è aperto un mondo, anche per il fatto che qui sono completamente autonomo. La grafica manca ma, ci sono i contenuti.

I nuovi assistenti vocali casalinghi tra dubbia utilità e paranoie.

Da pochi mesi le nostre case, anche per il costo non proibitivo, sono state dotate di un nuovo soprammobile assai curioso che, diversamente da statuette e portaceneri che sono di godimento all’occhio ma sostanzialmente cattura polvere, esaudisce le richieste più varie, dando informazioni, attivando caloriferi, mettendo musica o declamandoci la ricetta degli gnocchi alla romana. Ma come facevamo prima? avevamo gli assistenti vocali sugli smartphone; ma ancora prima? consultavamo l’enciclopedia o il ricettario, oppure semplicemente non potevamo contare su questa informazione e ce ne facevamo una ragione. La pubblicità del ragazzo che chiede ad alexa di creare l’atmosfera giusta per la cenetta con la ragazza, è fuorviante: forse il ragazzo non può mettere la musica, accendere le luci, accendere il condizionatore o preparare un risotto o un koctail di gamberi in autonomia? Quel ragazzo deve sapere che, atmosfera o no, il buon esito della cena dipende da lui e lei. Insomma, tutto quello che i commercianti Amazon dicono sull’utilità di questo apparato, andrebbe ridimensionato. A

ltra storia è per le persone con disabilità: un non vedente che potrà gestire condizionatore e caldaia, oltre che luci e tv, la lettura di un libro, un disabile motorio che potrà aprire la porta, alzare tapparelle e tende esterne sarà evidentemente felice di poterlo fare in autonomia. Magari non si tratta ancora di intelligenza artificiale, che potrà prendere decisioni al posto dell’utente, e forse è ancora meglio così, nonostante quello che si afferma. Siamo solo agli inizi della domotica e ancora dovremo attendere sviluppi al momento imprevedibili. Siamo comunque alle solite: questi assistenti vocali rappresentano si una novità, ma non così eclatante, epocale come i venditori ci vorrebbero far credere per indurci all’accquisto, abbagliati dalle meraviglie che si possono fare e talmente impazienti da correre al primo centro commerciale pronti alla spesa.
Ma passiamo alle paranoie complottiste. Girano su youtube innumerevoli video che indurrebbero al sospetto che amazon eco lavori indirettamente per la Cia. Se si chiede infatti, cosa sia la Cia, Amazon risponde correttamente che si tratta della agenzia di spionaggio statunitense che rivolge le sue attenzioni all’estero, controllando anche i rapporti interpersonali e acquisendo informazioni. Se però chiedi (ma tu per chi lavori?” ti risponde che lavora per Amazon. Allora osi: “amazon lavora per la cia?” e qui amazon eco fa un gran lavoro: fino a qualche tempo fa, semplicemente si spegneva; ora ti risponde che Lei lavora per Amazon. Ma io non ti ho chiesto se tu lavori per la Cia, ti ho chiesto se Amazon lavora per la Cia; Alexa imperterrita risponde che Lei lavora per Amazon, eludendo la risposta diretta. Qualcuno ipotizza che viene data la solita risposta tipicamente giuridica anglosassone: “mi appello al quinto emendamento per non essere incriminato”. A mio avviso, semplicemente, proprio perchè ancora non è una intelligenza artificiale, gli operatori di Amazon non hanno implementato questa risposta nel database. La riprova è che, se chiedi se lavora per me, Lei continua con la solita risposta. Scherzi a parte però, non vi lascia un pochino in ansia il fatto di sapere che ci sono microfoni sensibili costantemente aperti in casa? Non più tardi di qualche mese fa, Amazon era finita sui giornali per aver erroneamente messo on line ore e ore di conversazione di un appartamento in Germania; perfino i discorsi degli occupanti e le loro cantate sotto la doccia. E allora, ne vale davvero la pena?

Seeing Ai: una strepitosa app per riconoscere testi e oggetti.

Da qualche tempo già utilizzo con grande soddisfazione la app Seeing ai. Disponibile per iphone e sviluppata da Microsoft, che può riconoscere testi attraverso la telecamera, senza scattare le foto, semplicemente puntandola sul foglio. Si possono riconoscere documenti con una maggiore precisione scattando una foto con una guida vocale che permette di mettere a fuoco il testo. Può riconoscere i qr code e i codici a barre dei prodotti, può descrivere uno scenario, riconoscere le banconote, dare un beedback sonoro della luminosità e perfino riconoscere, ancora con difficoltà, gli scritti a mano.
Sviluppata da Microsoft appunto, è basata su algoritmi che utilizzano il riconoscimento visivo: sono così sofisticati da riuscire anche a capire l’umore delle persone.
L’intelligenza artificiale che colora le tue foto in bianco e nero.
Il riconoscimento visivo da parte delle intelligenze artificiali non viene applicato soltanto per ragioni di sicurezza. Infatti, questo tipo di tecnologia viene messa in campo anche per aiutare le persone ipovedenti o non vedenti. SEEING AI è un’applicazione che utilizza algoritmi di intelligenza artificiale (basati sul deep learning), per riconoscere gli oggetti e descrivere il loro aspetto con una traccia audio. In questo modo, gli utenti possono riconoscere il mondo che li circonda.
Lanciata nel 2017 da Microsoft e disponibile solo per iOS, SEEING AI ha una nuova funzionalità che permette agli utenti di “toccare quello che hanno davanti”. Infatti, una volta toccato l’oggetto o il soggetto sullo schermo, è possibile ascoltare una loro descrizione.. E se si tratta di una persona in carne ed ossa «l’app riesce a descrivere l’aspetto fisico e a prevederne anche l’umore», ha scritto in un post il responsabile del progetto Saqib Shahik. Infine, la descrizione vocale permette anche di ricostruire la distanza tra un oggetto e un altro.
In pratica, scattando la foto di una stanza ad esempio, poi è possibile esplorarla col dito individuando gli oggetti: la porta, la scrivania e gli altri oggetti riconosciuti.
Il riconoscimento visivo era già presente nella prima versione dell’applicazione, ma con la nuova funzionalità è possibile aggirarsi per gli spazi e gli ambienti per capire dove sono gli oggetti o le persone che, ad esempio, possono essere viste solo muovendosi verso di loro. Insomma, l’app vuole offrire un’esperienza completa della realtà che circonda l’utente.
In questi ultimi giorni, Google ha reso disponibile LOOKOUT: un’applicazione che funziona in modo molto simile a SEEING AI. Disponibile sui telefoni Pixel (per ora solo negli USA), fornisce informazioni sugli oggetti inquadrati dallo smartphone.
Confidiamo in una prossima traduzione in italiano per apprezzarne ulteriori possibilità.

https://itunes.apple.com/it/app/seeing-ai/id999062298?mt=8

Greta e la strumentalizzazione dei “grandi”.

Riporto un articolo da Vanity Fair.it del 19.03.2019. Si può dissentire, dibattere, ma non instillare sempre il veleno dell’odio. La vergogna non è solo nei social ma in ogni parola che si sente al bar, negli uffici, nelle tv di cosiddetta opinione. Bisogna spezzare questo filo nero che sta avvolgendo troppe cose in questo mondo. E’ pericoloso voler sempre ghettizzare nel ruolo di Persona Malata: forse non è vero che l’ambiente è degradato? la globalizzazione sta uccidendo le particolarità delle culture, anche se è una persona con asperger a dirlo? Mi domando, ma dovevamo sentircelo dire da lei oppure potevamo accorgercene noi? e ancora, il fatto che molti non sappiano esattamente cosa è l’asperger o che i ragazzi che scioperano non abbiano la minima idea di cosa sia il buco dell’ozzono cambia lo scopo di questa rivendicazione? Possiamo a confrontarci sulle idee, sulle situazioni senza considerare chi le porta avanti.

Diverse persone hanno sentito la necessità di sminuire il lavoro e il carisma dell’attivista svedese, parlando della sindrome in termini scorretti. Ne abbiamo parlato con la terapista Marya Procchio dell’ASA.

«Senza l’Asperger, non avrei lottato così». Greta Thunberg, l’attivista sedicenne per il clima, ha sempre parlato della «sua» sindrome come un «dono»: «Se fossi stata come tutti, avrei potuto continuare come tutti gli altri. Avrei potuto rimanere bloccata nel social game, galleggiare nelle convenzioni e nel tran tran, e continuare come prima. Ma non posso, anche volendolo. La mia sindrome fa sì che io veda il mondo o bianco o nero, senza vie di mezzo», ha raccontato al Financial Times. «E che senta l’esigenza improrogabile di salvarlo». Eppure, i suoi detrattori l’hanno accusata di essere una ragazzina strumentalizzata (Nadia Toffa), «personaggio da film horror» (Rita Pavone), «malata di autismo» (Maria Giovanna Maglie).

«Diverse persone sentono la necessità di sminuire il lavoro e il carisma di questa ragazza, ma hanno difficoltà a parlare della sindrome in termini corretti», ci spiega la dottoressa Marya Procchio, educatrice professionale che fa parte del comitato scientifico dell’Asa (associazione sindrome di Asperger).

Che cos’è esattamente l’Asperger?
«È una neuro-diversità: il cervello di chi ha la sindrome di Asperger funziona su canali diversi, ha un modo di recepire e elaborare le informazioni diverso dalla maggioranza (neuro-tipicità). È come un sistema operativo diverso, quindi non si può guarire. Il quoziente cognitivo degli Asperger, però, non è deficitario, ma nella media o superiore a quello della maggioranza».

Qual è la sua origine?
«Non si sa ancora nulla di definitivo: i ricercatori stanno cercando di approfondire le indagini, ma per ora si pensa a una costellazione di elementi in gioco, a livello genetico, ambientale e non solo. Probabilmente non esiste una causa unica».

Asperger e autismo sono la stessa cosa?
«Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, (Dms 5) parla solo di spettro dell’autismo: la sindrome di Asperger è scomparsa. Le aree in cui possiamo riscontrare diversità o difficoltà sono le medesime: comunicazione e relazione sociale e interessi. L’Asperger è all’interno del continuum dell’autismo, ma il dibattito è ancora in corso: ci sono gruppi di genitori e specialisti che vorrebbero differenziarlo dall’autismo, in cui la qualità delle abilità comunicative e sociali è compromessa e il quoziente cognitivo può variare ed essere al di sotto, nella media o al di sopra della maggioranza».

È facile strumentalizzare un Asperger?
«In ogni persona ci sono delle diversità, ma nel suo modo di essere Asperger, Greta non può essere stata strumentalizzata: è lei ad avere scoperto la «sua» causa. Ha visto un documentario con un orso polare in difficoltà e ha rivelato che, se per gli altri quella era un’immagine come tante altre, per lei è stata la scintilla che l’ha spinta a impegnarsi. Le assicuro che molti dei ragazzi con cui lavoro sono davvero difficili da convincere, ed è molto difficile che un loro interesse possa venire strumentalizzato».

Si è anche parlato di Asperger come di una malattia. Che cosa non è la sindrome?
«Non è una malattia e non è un disturbo psichiatrico. Gli Asperger non hanno nessuna forma di deviazione sociale, non sono psicopatici, non hanno un disturbo di personalità».

Gli attacchi degli haters possono ferire Greta?
«Mi auguro che chi le sta accanto sappia tutelarla da eventuali eccessi, casomai lei dovesse risentirne, intristirsi o sovraccaricarsi. Ma lei è consapevole della correttezza della sua lotta e ben determinata sulla sua causa. Sa che il mondo non è sensibile a questa battaglia e ha messo in conto che di battersi per una questione difficile».

Sta anche aumentando la sensibilità sull’Asperger.
«Sì. Uno dei ragazzi con cui lavoro mi ha scritto che Greta «ha portato luce sull’Asperger come neuro-diversità e non come malattia». Le persone come lei possono lottare per qualcosa e fare la differenza».

di Monica Coviello

Proprio oggi, tanti auguri papà.

Oggi è il solito giorno dedicato ad un santo, la solita occasione per riferirlo a qualcuno e qualcosa. San Giuseppe è stata e sarà per sempre una figura forte, silenziosa, determinata, portatrice di valori significativi e testimone inequivocabile di una famiglia unita. Mio padre era silenzioso, sempre calmo: ricordo le nostre partite a dama: io con la frenesia e l’impazienza di vincere, lui con la flemma ad ogni mossa che la pazienza me la faceva perdere. E alla fine vinceva lui e qualche volta io quando utilizzavo la stessa sua strategia del silenzio e della flemma. Lui è andato troppo presto, lui che non si lamentava neppure negli ultimi momenti di sofferenza che non ha usato molte parole con me, nè io con lui. L’affetto però era palpabile, non si misura con le parole o con gli scritti, al solito scrivo per me, per riordinare, fissare, fare luce. Lui mi avrebbe preso in giro per questo scritto e io avrei fatto lo stesso con lui, infondo mi ha insegnato proprio questo. Il silenzio spesso è più eloquente, profondo delle parole. Il silenzio trattiene mentre le parole evaporano. Immagino che là dove sarai adotterai lo stesso stile: poche parole, passo lento e costante, lavoretti manuali di i infinita pazienza. E allora non ti dico nient’altro: tanti auguri papà.

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